mercoledì 6 settembre 2023

In una sera di settembrebre

Non mi interessa cercare di vedere

le immagini sono macchie su foto

antiche - ne ho tante in una scatola

accucciate da decenni una sull'altra -

Non mi graffiano le voci, quella che pigola

dell' imberbe uomo o quella artificiosa

dell'intervistato, recitano i due guitti

e recitano male perché vogliono 

convincere me e te e tutti che sono bravi.

E bravi sono. Manzonaniamente, m'invento 

il termine. Non ho niente da vedere, né 

da ascoltare e il dialetto di Partenope è

così stretto e biascicato e squagliato e

incagliato tra i denti che mi faccio sorda.

Così non faccio altro che scrivere quassù

sciocche riflessioni che tu non leggerai.

E chissà se le leggerà lui, srotolando i 

muscoli sul divano, in attesa del sonno.

Poi c'è il più piccolo e certamente s'è

addormentato già da un pezzo.

Tutto il resto, tutte le parole, dai canali

di un'informazione buffona, bugiarda,

bieca, becera, banale e tutte le b brutte

che ancora non conosco e sono vecchia per

tornare sui banchi e al dizionario.

Tutto il resto, dicevo, non è più attinente

alla mia vita. 

Oggi, distesa sul letto, quella bambina,

ferita senza scampo né pietà, si è  liberata.

Oggi è volata via e non tornerà più.



mercoledì 23 giugno 2021

Al gelsomino arabo che quest'estate fiorisce.

 




Non scrivo quasi  19 aprile 2021

 

 

Non scrivo quasi più niente

ho le mani intirizzite

stecchite dalla sfiducia

gli occhi li ho persi da tempo

e da un anno sono secchi

somigliano alle foglie

del rampicante indiano

macchiate delle muffe invernali.

Non scrivo più parole

che mi cantano in testa e

nella pancia danno pugni

Il cuore? No quello ha altre cose da fare,

non pompa versi storti

fai il tuo lavoro, gli dico,

vai avanti ancora un po'.

Non ho più parole.

Le voglio ascoltare dagli altri

mi rotolano nelle orecchie

si raggomitolano come fili di lana

messi da parte per lo scialle che scalda

si acciambellano come la gatta sulle mie gambe

e a volte fanno le fusa.

Ascolto le parole degli altri.

Molte hanno un rantolo buio

allora spalanco la finestra

ai suoni di piombo della città

perché fuggano fuori, fuori da me.

Si infrangano pure, le parole, sul selciato di lava,

si annocchino pure, le parole,  nei cassonetti

trasudanti quintali di plastica.

Inerpicate sui muri, sbiadiscano

impastandosi tra loro.

Non ho più parole, no.

Ho però cespugli in attesa

un bottone di rosa,

un nido di merli,

un geometrico cielo tra i tetti

a cui alzo lo sguardo

per incrociare quell'occhio divino.

Ho una gatta che sfoglia i fiori nel vaso di coccio.

E molti libri che qualcuno legge per me.

Tutto questo - che non ha bisogno di parole –

è la cornice che vi trattiene

mie infinite luci.



 

martedì 17 novembre 2020

Confronti

 


Confronti novembre 2020

I confronti non si adeguano, non appartengono
all’amore
perché pretendono una mancanza da una parte
o dall’altra
Incoraggiano l’amarezza delle labbra
la rigidità dei sorrisi
la fissità degli occhi traccia un filo d’acciaio
che si attorciglia.
Nei confronti si schierano gli amori
diventano soldati
armati alla pari ma uno vince sempre
 e l’altro è il soccombente

Io ti amo di più  lo abbiamo detto tutti

mentre il cielo incredulo
cadeva a pezzi sulle nostre teste.
Il confronto nell’amore c’è ed è lacerazione
di un altro tempo
che non ha limiti di tenerezze di carezze
anche di sofferenze
 
-le sofferenze uniscono più che le gioie-
 
Confrontare l’amore è pesarlo
con la bilancia a due piatti del bottegaio,
era d’ottone e marmo,
 s’affosserebbe un piatto e non dal chilo in più,
 
(perché mi viene in mente la libbra di carne?
 di un cuore?)
 
Peserebbero il passo indietro, il mettersi di canto,
le lacrime improvvise?
un film e un libro che ci siamo passati a voce? 
una pazzia, un dolore,
un sacrificio che senza chiedere si è imposto?


Frida Kahlo "Le due Frida" 1939
 
 
 

mercoledì 11 novembre 2020

Meglio tacere.

 


Torno qui dopo mesi. Lo dico a me stessa prima di tutto, lo dico a me con una sorta di stupore perché non pensavo di aver voglia di scrivere qui. Come se questo spazio fosse limitato da qualcosa o a qualcuno. E so invece che sono io a dargli robusti confini. Quelli della mia incapacità nella perseveranza, della mia inguaribile indolenza.

Torno qui per tacere, per scegliere il silenzio. Quel silenzio schiacciato, umiliato dalle parole fuori dai denti, scardinato come porte dopo il sisma, sconnesso come le menti dei vecchi allettati da troppo tempo. Cosa potrei e vorrei aggiungere al superfluo? 

In questi mesi di ruggine da scrostare, di paludi abbandonate alle zanzare da guadare, tutto è stato detto, tutto è stato affermato; e tutto negato. Nessuno, nessuno ha avuto o voluto il tempo della riflessione, si è alzato il tiro, si sono sciolti gli ormeggi, scaricando la zavorra del buongusto e della ponderatezza e via alle scorribande di giudizi e critiche e approvazioni ed entusiasmi. Ognuno ha parlato per sé e per gli altri, ma anche contro sé e contro gli altri. Se mai dovessi raccontare di  questi mesi, al netto della solitudine feroce, delle vittime inermi, della paura armata di medievale falce, degli affetti dispersi nelle chat e nelle videochiamate, ne racconterei le voci, contraddittorie e spesso, troppo spesso ipocrite. 

Non mi interessano né i negazionisti, né gli esperimenti muscolari tra scienziati e politici. Non mi interessa neanche più l'utilizzo scriteriato delle notizie da parte dei media: molto più che a una realtà oggettiva che si avvicinasse maggiormente alla verità dei fatti, si è preferito il megafono dello spettacolo, quasi una drammatizzazione teatrale da grandguignol, un sopperire triste e scadente alle ribalte vuote di teatri e cabaret. E non m'importa neanche di chi si professa adempiente, ligio alle regole e se ne fa vanto - l'individuo mediamente intelligente sa quando e come proteggersi e l'individuo mediamente inserito nella società sa quando e come comportarsi con gli altri. E quelli che non si proteggono e non proteggono gli altri, non sono né intelligenti né individui socialmente accettabili. Non provo alcuna curiosità per loro, per le asserzioni in antitesi tra loro, per l'ampollosità che ne trasuda, come se dovessimo arrenderci, tutti, a una escatologia nuova e sicura.  

Mi interessano il non detto, il sottaciuto, l'intravisto. Mi interessano e mi sconfortano in pari misura il velo squarciato a metà, il sipario accostato, il buco della serratura oltre il quale c'è il bisbigliare della coscienza.

Mi interessa l'umanità offesa. Mi interessa la resurrezione possibile.  E mi interessano le parole di nuda verità, senza glorificazioni, né cori, né emozioni. Quelle che dicono che una Democrazia non sarà mai una democrazia compiuta e "grande" fin quando non sarà in grado di assicurare la salute, a tutti i cittadini. Tutti.

Per il resto, preferisco il silenzio. Meglio tacere.  


lunedì 25 maggio 2020

Dietro i vetri e non è un diario.


Ora potrei dire che ho riflettuto, che ho rovistato dentro la mia carne, affondando nel sangue che scorreva feroce e vivo nella penombra della lampada, con le scale agitate da fantasmagorie dietro i vetri della finestra affacciata sulla strada  abbandonata dai passi di uomini e donne con i cani al guinzaglio, per l’ultimo giro d’aria. Ora potrei parlare di quello che abbiamo vissuto, ma mi è ancora dolcemente doloroso, mi pare di sfiorare un ematoma pulsante verso cui tende, irrefrenabile, la mano. Non voglio stilare un diario, leggo che ne sono in procinto di edizione o almeno in speme, decine o chissà centinaia di scritti, pensieri e vite di forzata clausura. Ciascuno di noi, e siamo milioni, custodisce percezioni, sentimenti, che siano simili o no poco importa. Non ho curiosità particolari su questo. Quello che mi sollecita è il binomio, involontario, solitudine o isolamento - cambiamento.
Dunque si sbandierava, assieme ai tricolori alle finestre e ai balconi, il cambiamento. S’aggirava per la penisola uno spettro, ma era uno spettro che non incuteva timore, anzi: andavamo in brodo di giuggiole perché ci piaceva, perché no, essere migliori. O credere con una seria certezza di poterlo diventare. E quindi le piazze, sconfinati deserti e bellissime, delle nostre città, la gioiosa consapevolezza di contribuire al loro respiro; la commozione per i medici e i sanitari, l’emozione drammatica di Papa Francesco sperduto davanti al colonnato di S. Pietro.  I cori, i canti, i musicisti, gli artisti, tutti a chiedere con affettuosa premura di restare a casa. Buoni, a casa. E lo siamo stati.
Per un po’. Poi tutto è scemato, le mani hanno smesso di applaudire perché i morti non diminuivano, le bandiere sono state arrotolate, i cori si sono zittiti, gli artisti e tutti gli altri hanno cominciato a mostrare una ciclica prevedibilità e tutto è piombato nel silenzio, quello effettivo della solitudine.
Ci siamo messi, come la mia colombaccia sul ficus, a covare. Rabbia e frustrazioni, rancori, paure, attese disattese sono esplosi sui social - pleonastico dire  che questi sono ormai il termoscanner dello stato morale, politico, economico, sociale di una nazione -  e ne hanno fatto le spese alcune persone che, per un motivo o per un altro, hanno surriscaldato la minestra scotta ma sempre avvelenata della ciancia nostrana e  la ripresa gloriosa della nostrana fatwa non si è fatta attendere, a chi tocca tocca.  Fine della bontà, fine del mondial festival della fratellanza.
Quindi, se ne dovrebbe dedurre che l’isolamento ci ha danneggiati,  spiritualmente oltreché materialmente.
Parrebbe di sì, di primo acchito. Sicuramente ci ha impoveriti economicamente e sarà durissima sfangarla la vita, ma non per tutti. Questo è il primo madornale abbaglio che ci ha accecati: la crisi non è per nulla democratica,  mieterà le sue vittime tra i più fragili, falcidierà i deboli, proprio come ha fatto il virus. E come ancora lo fa, dall’altra parte del globo.  E nulla, o poco, si sa dell’Africa. Quelli che rabbrividiscono per gli sbarchi, potrebbero tirare un sospiro di sollievo. Sì, lo so, sono cattiva, mi adeguo.
Parrebbe dunque che la solitudine - oltre le torte e i dolci fatti in casa, che bello! E i libri, quanti ne abbiamo letti e la musica e i film riscoperti, ah! I vecchi film (io per prima eh) - ci abbia resi perversi, rabbiosi, pronti a sferrare l’attacco al primo disgraziato che capitasse sotto tiro. No, non è così, non lo credo. Perché la solitudine è straziante per la mancanza e fa piangere la sera, quando anche il soffio di vento dietro i vetri della finestra cessa e tutto diventa un cielo senza voci e le voci delle persone assenti ti rimbalzano nella testa e nel petto e vorresti afferrarle e quando i volti lontani si affacciano dall’etere tecnologico c’è il sobbalzo del cuore e resti a spiare ossessivamente quei tratti, i movimenti, li riconosci, li riapprendi, li leggi. Senza toccare, immobilizzi  le mani che sono rami inutili. La solitudine è chiudere il cervello all’oggi e fingersi nel futuro e immaginare, tutto quello che manca, tutti gli assenti. La solitudine è costruire il domani, con pazienza.  La solitudine è fatica, un avvolgersi in sé, una coperta da tessere per proteggersi.  Aspettando. Mi piace pensare che diventi un lavoro, un’occupazione nella quale impegnare quella parte di noi che, nel trambusto del fuori, del gomito a gomito, della pacca tra colleghi, è sempre negletta, oscurata. Uno sbilenco, schiacciato io a cui non rispondiamo perché non abbiamo tempo.
La solitudine-isolamento no, non ci ha cambiati, non tutti, forse anche pochi. E quei pochi sono quelli che, in qualche modo, l’hanno riconosciuta perché, in un altro tempo, in altre occasioni, gli è stata familiare.
Ora siamo liberi, da qualche settimana, ci siamo tolti le catene e ci ritroviamo nella palude di Lerna con l’Idra ancora pericolosamente vivo e con i nostri bisogni e paure e contorcimenti e lividi e pugni serrati ( e quanto crudele sostegno dà a questo nostro inquieto spaurito vivere, l’informazione, "il vaccino salvifico ci sarà a breve, no, tra molto, anzi mai, no ci sarà a breve ma non per tutti" gli esclusi quelli non mancano mai) . Come prima,  peggio di prima. L’incantesimo della Bella Addormentata è finito, sono stati cento anni questi due mesi, per la nostra cattiva coscienza. Mettiamola in libertà e non diamo la colpa all’isolamento, almeno non questo, non quest’ennesima ipocrisia. Siamo così e non vogliamo cambiare. L’altro è un’idea da cui prendere le distanze. E ora che ci è permesso di tornare fuori dalle nostre stanze, fisiche e ideali stanze, rientriamo con scalpitante bramosia tra la folla. Ritorniamo a essere massa, delusa e incollerita perché ulteriori incertezze, ulteriori inganni, ulteriori trappole stanno dietro l’angolo.
La solitudine era il ricovero temporaneo alle nostre afflizioni, l’oblio di noi stessi: eravamo altri, potevamo essere altro. Oggi sciamando per le vie, insofferenti alle mascherine umide di sudori già estivi, sgattaiolando bruschi di fronte a chi ci viene incontro -lo sconosciuto temuto, la minaccia incombente - entrando sospettosi nelle botteghe riaperte a fatica, li lasciamo lì, gli altri noi, quelli che siamo stati in tutte quelle ore sospese in una surreale quotidianità.  Li confiniamo nelle stanze d’ombre e parole e pensieri, come ologrammi di noi.

Edward Hopper "Early Sunday Morning" 1930






mercoledì 6 maggio 2020

Cocci.

Mi chiedo cosa ricorderò di questi giorni, mi chiedo cosa sarò io e come affronterò la vita.  Anche se non sarà poi così lunga. Non ho risposte, non ne trovo, devo rimettere al posto che gli tocca tutti i cocci. Per adesso ho solo frammenti, cocci.


Cocci.  4 maggio 2020

C’è un vaso di terracotta
smozzicato
d’ocra rotta in più punti
come la mia testa
che sta attaccata al collo
solo per rispetto del tempo
perché le resti dentro.
Sta il mio coccio tra gli altri cocci
del giardino spigoloso, arricciato
ammucchiato e croccante di foglie
sotto le suole di gomma,
le ciabatte di due mesi ai piedi
che mi impediscono di raggiungere
una strada, un sentiero, una costa.
Ho letto romanzi stravaganti
e uno magico scritto da qualche strega,
ho letto poesie  addolorate d’amore,
anche le mie parole prive di versi ho letto
distici, esametri scomposti, terzine
vacillanti per lo spavento nuovo
per il distacco rotto dalle sirene.

Ho ammazzato il desiderio, di tutto.

Ho spaccato sminuzzato le mie pene
come mandorle e nocciole
le ho amalgamate all’impasto
di ciambelle e torte infornate
perché il calore scacciasse il gelo
dalla casa e dalla vita.

Niente pensieri niente rimpianti
niente niente niente niente niente

Era il nemico da sconfiggere
il desiderio vorace e l’ansia
li allungavo con l’acqua per non
ubriacarmi di dolore nel buio
che andavo cercando, ogni sera.

Ho tenuto duro, sono stata brava
mi sono tolta le dolcezze dell’attesa.
Di un sorriso, di un abbraccio, di una fuga.

Sto qui tra i miei cocci, sbeccata
tra i ciottoli calpestati dagli uccelli
e la rosa bianca gonfia i boccioli
e l’asparago è una piuma.


Edward Hopper "Cape Cod morning" 1950


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